Intervista a Francesco Lutrario su comportamenti ed emozioni dei videogiocatori
L’intervista è uno dei diversi tasselli che compongono una ricerca sui videogiochi e soprattutto sui videogiocatori, finalizzata allo studio dei loro comportamenti, emozioni e sensazioni in relazione a questo prodotto ludico.
La scelta di intervistare un esperto del mondo ludico come Francesco Lutrario è dovuta all’intenzione di approfondire e mettere in ordine le risposte ricevute dai videogiocatori in un recente sondaggio online disponibile a questo indirizzo:
Perché si dovrebbe o si vuole videogiocare secondo lei?
Il motivo per cui si videogioca è lo stesso per il quale si gioca, la differenza sostanziale è nel supporto. Vi sono due aspetti: da un lato il gioco è l’elemento che la natura ci mette a disposizione per apprendere, attraverso continue sfide. Durante questo processo sviluppiamo diverse abilità (strategiche, sensomotorie, di interpretazione) che si collegano alla “neotenia”, cioè il mantenere una plasticità del cervello prolungando caratteristiche mutuate dalla fase infantile anche quando, da un punto di vista fisico, siamo già adulti. Questo ci permette di adattarci più facilmente al mondo che ci circonda; più è complesso il sistema al quale un “animale” deve adattarsi più la neotenia si presenta in modo consistente. Dall’altro lato, abbiamo una pulsione naturale al gioco, che, come dice Huzinga, è legata alla necessità di autoaffermarsi, di lodarsi, di essere riconosciuti abili. A questo scopo c’è la gara, ed è anche per questo che giochiamo, lo facciamo per dimostrare di essere bravi, capaci. Un gioco può essere collaborativo, ma vi sarà sotto comunque una sfida, un desiderio di mettere alla prova e dimostrare le proprie abilità.
Svago e Amicizia: come questi due elementi influiscono sull’esperienza del videogiocatore con il prodotto videoludico?
Svago richiama il concetto di divertimento, un divertimento non ilare, ma nel senso proprio, etimologico del termine che è sinonimo di distogliere. Il gioco diverte poiché distoglie dalla vita di tutti i giorni. La particolarità del gioco è che, al contrario del cinema, ad esempio, richiede una continua sequenza di azioni e reazioni da parte del giocatore, e questa è alla base stessa dell’interattività del sistema gioco. Il gioco risponde solo in funzione delle scelte del giocatore e quindi immerge fortemente nell’azione permettendo di lasciare da parte i problemi del mondo reale.
Riguardo l’amicizia invece?
Siccome nel gioco noi mostriamo veramente chi siamo, attraverso il gioco è più facile creare un contesto amicale. In un contesto simile, siamo più propensi a mostrare noi stessi e quindi a creare relazioni di amicizia più durature. Il gioco poi vuol dire rispetto delle regole che è alla base del rapporto di fiducia.
Simulazione e Esperienza: cosa apprende il videogiocatore giocando ad un videogioco e cosa comporta vivere un’avventura nuova e unica anche se simulata?
Le due cose sono strettamente connesse. L’essere umano è un simulatore esso stesso: sin da bambini impariamo a proiettarci in situazioni ipotetiche, facciamo simulazioni. Quando c’è qualcosa che per noi è importante sia dal punto di vista razionale che emotivo, ci prefiguriamo le situazioni, le immaginiamo e il gioco non fa che metterci a disposizione queste simulazioni in maniera continuativa. Il rapporto tra simulazione e esperienza è continuo: tanto più interagiamo con un sistema, tanto più migliora la nostra conoscenza del sistema stesso. Durante il gioco, vi è un guadagno indiretto: la sfida che il sistema pone migliora anche le nostre capacità esterne, aiuta a risolvere situazioni complesse, a reagire agli imprevisti.
Arte contro Tecnologia: il videogiocatore dovrebbe pensare al videogioco come un’opera d’arte o come un prodotto di una fiorente industria e simbolo dell’era digitale? (Aggiungo anche che, a mio parere, le due cose si fondono.)
Secondo me la commistione con l’arte è nata quando si è venuto a creare un parallelismo improprio tra il cinema, considerata una forma d’arte, e il videogioco, entrambi elementi caratterizzati dal supporto visivo. Prima di allora, nessuno ha mai pensato che produrre un gioco, ad esempio Risiko o Tetris, fosse finalizzato alla realizzazione di un prodotto artistico; vi sono certamente componenti artistiche, come i disegni nei giochi di carte o gli scenari di un videogioco 3D, ma chi produce un gioco lo fa con l’obiettivo che quel mondo venga popolato, non con l’intento di esprimere le proprie emozioni. Va considerato poi che il videogioco è frutto di menti e abilità diverse; chi programma un videogioco lo fa con l’intento che qualcuno lo utilizzi e non che lo ammiri come fosse un’opera d’arte. Certo in un gioco c’è una componente artistica, creativa, ma questo discorso vale per numerosi manufatti e opere dell’ingegno umano.
Non può essere considerato opera d’arte neanche se si pensa, ad esempio, a registi come Hideo Kojima?
Usare la parola regista è improprio, perché non esiste una figura nell’ambiente ludico paritetica alla figura del regista. Il gioco non è un’opera sequenziale come può essere un film o una pièce teatrale; al limite il game designer o qualcuno del team come il lead artist potrebbero avere un intento artistico, ma sicuramente, come dicevamo prima, il videogiocatore non ne fruirà come si fruisce un’opera d’arte, ma cercherà una sfida, lo giocherà con gli amici e non andrà ad ammirarlo in un museo. Ciò non toglie che il game designer e il team di sviluppo possano creare un gioco così originale, attrattivo e coinvolgente da poterlo considerare un’opera d’arte. Ma questo saranno il tempo e i giocatori a dirlo. Di certo un gioco dotato di ambienti, scenari e personaggi artisticamente rilevanti non avrà successo se non è dotato anche di una meccanica di pregio, che a mio avviso è il cuore di un sistema di gioco.
E quindi, il rapporto con l’arte dove può essere trovato?
Il rapporto con l’arte va spiegato, secondo me, nella relazione con il lavoro. Un vero prodotto artistico presuppone che il creatore rimanga nella sfera ludica, che sperimenti e sia libero di farlo. Non appena si passa da questa fase alla commercializzazione del prodotto, alla ripetizione di gesti e processi condizionati dalla sfera economica viene meno l’intento ludico iniziale e si entra nel lavoro perdendo molta della spontaneità, della ricerca e della sperimentazione che è alla base dell’espressione artistica.
Videogiocare significa seguire i moti di un’industria in continuo sviluppo. Alla luce di questa considerazione, cosa, secondo lei, i videogiocatori dovranno aspettarsi per il futuro di questo medium?
Fortunatamente si è sviluppato molto il mercato dei giochi Indie. Grazie agli strumenti di sviluppo gratuiti come “Unity” e ai canali di distribuzione come Steam, oggi il mercato si è aperto ai giovani team, anche molto piccoli, e molti sviluppatori possono proporre prodotti originali, innovativi. Parlo di un’innovazione a livello di meccaniche, di commistioni di stili; situazione difficile nel caso di grosse aziende che troppo facilmente si focalizzano su idee già rodate per puntare su guadagni più certi. Funziona l’FPS? Cambio le ambientazioni ma lascio la meccanica intatta non portando innovazione. Paradossalmente, l’industria tende ad introdurre idee nuove con grande lentezza. La ventata d’aria fresca viene, invece, da situazioni in cui si può sperimentare: giovani con idee geniali, laboratori universitari e situazioni dove a guidare è la volontà di fare un gioco realmente nuovo.
Quindi il videogiocatore deve volgere lo sguardo al mercato Indie?
In linea generale si, anche se ci sono ovviamente delle eccezioni. Nelle piccole produzioni si possono trovare vere perle. Poi è chiaro che dall’altra parte vi sono le grandi aziende che creano prodotti di altissimo valore ma che altre volte si limitano a “rinnovare” giochi con meccaniche a cui ormai siamo affezionati. In questi casi, si pensi a FIFA, non stiamo comprando un nuovo gioco, compriamo lo stesso gioco ma con grafica rinnovata. In altri casi cambiano le ambientazioni ma il meccanismo di base resta invariato.
A livello di educazione e apprendimento, come il videogioco cambierà il sistema scolastico?
Purtroppo, siamo ancora molto indietro: a livello scolastico si potrebbe trasformare radicalmente il sistema di insegnamento. Attraverso simulatori appositamente creati, è possibile spingere gli studenti a ricercare e a informarsi per risolvere il problema che il gioco propone. Si tratta di cambiare l’ordine dei fattori. Ad esempio, un simulatore di campagne militari dell’antica Roma potrebbe spingere gli studenti a fare ricerche sui metodi adottati da quella civiltà per vincere le battaglie, al fine di replicarle nel gioco. Gli studenti non dovrebbero memorizzare nozioni senza un effettivo riscontro pratico. Con la pratica possiamo imparare in modo più profondo rispetto alla lettura di un libro o ad una lezione frontale. Questa sarebbe a tutti gli effetti una rivoluzione culturale: gli insegnanti dovrebbero prepararsi ad usare un metodo di formazione basato sull’esperienza diretta e d’altra parte creare un simulatore significa impiegare tante risorse sia a livello di costi che di professionalità coinvolte.
Cosa implica, a livello di salute, una presenza più massiccia di questo strumento nella vita di tutti i giorni?
Il problema qui non è lo strumento ludico, ma l’uso intensivo di device digitali. È il tempo di esposizione totale che noi passiamo davanti ad un monitor che potrebbe nuocere alla salute; se poi dietro al monitor vi è un simulatore, un social network o Netflix è piuttosto indifferente. In ogni caso, è molto meglio passare tanto tempo davanti ad un videogioco in una condizione mentale attiva, che passarlo davanti alla televisione o a Netflix in una condizione passiva. Un conto è avere un documentario sulla Savana, un conto è avere un simulatore sulla Savana: nel secondo caso il giocatore si sente parte in causa nell’azione e cercherà un modo per risolvere una situazione di pericolo imminente, ad esempio sfuggire da un leone; nel primo caso, invece, osserverà in modo distaccato qualcun altro che sfugge alla situazione di pericolo, non agendo esso stesso e non apprendendo in modo profondo.
Per quanto riguarda, invece, il discorso sui videogiochi che stimolano alla violenza o provocano patologie a livello di salute?Questo è un altro problema: come tutte le forme di gioco, anche i videogiochi possono portare a delle degenerazioni. È chiaro che così come la carenza di gioco a livello infantile può causare problemi relazionali in futuro, così l’eccessiva ripetizione di azioni ludiche sempre uguali, può causare problemi di socializzazione, cognitivi o addirittura di distorsione della realtà. Ma non dipende dai giochi in sé, ma dal ripetere per ore le azioni su uno stesso gioco, arrivando alla fine a non apprendere più ma a ripetere ossessivamente azioni sicure. Queste sono forme di ludopatia che possono essere legate al gioco d’azzardo ma anche ai giochi di vertigine, dove esperienze sensoriali forti, ricercate in modo eccessivo, potrebbero portare il giocatore alla ricerca di queste stesse emozioni anche fuori dal gioco. Un conto è fare arrampicata sportiva con adeguate protezioni, un altro è scalare una montagna senza sistemi di sicurezza perché si cerca una emozione estrema. Un conto è giocare ad un gioco di ruolo un altro è vivere costantemente immersi nel ruolo del nostro personaggio. Spesso si confonde il sintomo di un disagio con la causa.
Secondo lei, il videogiocatore come si comporta prima dell’uscita di un prodotto?
In particolare, nella creazione di comunità online, eventi e portali dove scambiare notizie e idee.
Le comunità online, gli eventi e i portali dove scambiare notizie e idee spesso vengono create dopo l’uscita di un prodotto, ma possono essere prodotte prima dal publisher come forma di comunicazione. Io diffido molto dei trailer, perché spesso l’obiettivo è creare aspettative per incentivare la vendita del prodotto, aspettative che a volte non sono rispettate appieno perché quello che viene mostrato è un video e non il gioco in sé.
E, invece, come si comporta quando il prodotto è finalmente nelle sue mani? In particolare, “interattività” è la parola giusta?La parola giusta è assolutamente interattività, perché ciò che si vuole fare con il gioco appena lo si ha in mano è testarlo, giocarlo. Vogliamo provarlo in prima persona, vogliamo vedere quanto è fluido, come risponde ai comandi e se e quanto è difficile.
Infine, per quanto riguarda la competizione: è vero che è alla base del videogiocare?
La competizione è effettivamente sempre presente. Come dicevamo prima, anche nei giochi cooperativi alla fine vi è una componente competitiva, poiché cerchiamo anche in queste esperienze qualcosa che misuri il nostro miglioramento e capacità di risolvere i problemi. Va tenuto presente il termine competizione non ha una accezione necessariamente negativa, io mi riferisco alla voglia di mettere alla prova le nostre capacità. È proprio la competizione che è alla base del giocare che spinge a sfruttare al meglio l’interattività del prodotto ludico.
Autore: Francesco Alteri