Il significato del gioco nelle opere di Leonardo da Vinci. Leonardo mostra che lo scopo del gioco è alla base delle scienze e delle arti, ma fine a se stesso
Quinto articolo della collana Il gioco nella filosofia, dedicato a Leonardo da Vinci. La collana si propone di illustrare come il gioco sia presente nella filosofia di vari pensatori e quale funzione esso abbia assunto nel corso della storia della filosofia. La serie è curata da Brunella Antomarini, docente di filosofia presso l’università John Cabot di Roma.
Il presente articolo è incentrato sul significato del gioco nelle opere del grande artista, inventore, matematico e scienziato italiano.
Quando alla fine del Settecento Giovanni Battista Venturi poté consultare i taccuini di Leonardo trafugati da Napoleone e custoditi a Parigi nella Bibliotèque de l’Institut, scoprì un’attività frenetica di annotazioni che ne sancirono la vasta conoscenza scientifica e matematica. Eppure Leonardo non è uno scienziato, non è un matematico, non è solo un artista. Grazie ai codici, abbiamo scoperto che cominciava molte opere e le lasciava a metà. Per cominciarne altre. Faceva errori. Si presentava con competenze che non aveva. Un enfant terrible del tempo – o di tutti i tempi, Leonardo, dilettante e auto-didatta, gioca. Ogni suo schizzo è il lavoro geniale del giocatore che, come dice lui stesso, non si preoccupa di far “bene una testa o una figura” in modo che sia somigliante a una reale (174)*, ma di dare un senso universale al particolare (205), perché non si lavora aspettandosi qualcosa in cambio ma per il grand’amore che “nasce dalla gran cognizione della cosa che si ama” (175). Lo scopo del gioco è alla base delle scienze e delle arti, ma fine a se stesso. E per questo consiglia ai disegnatori di “pigliare de’ giochi qualche sollazzo” (182) che serva ad “assuefare l’ingegno”, come ad esempio di tirare una linea su un muro, poi di tagliare ogni giocatore una paglia della lunghezza che immagina sia della lunghezza di quella sul muro. E vince chi si avvicina di più alla lunghezza effettiva. E Leonardo è questo che fa continuamente nella solitudine del suo lavoro e dei suoi viaggi. E’ un ‘ingegnere’ – così vuol essere riconosciuto: quando si presenta a Milano con una lettera a Ludovico il Moro come abile a costruire ponti e bombarde, carri coperti e navigli, e sculture in bronzo o marmo, come nessuno prima di lui (170-1). Ma sappiamo che non solo la Battaglia di Anghiari o la Adorazione dei Magi furono lasciate a metà, ma anche la scultura in bronzo promessa per il padre di Ludovico non fu mai realizzata. E un piano ingegneristico di deviazione dell’Arno, progettato con Nicolò Machiavelli fallì clamorosamente (descritto nel bellissimo libro di Roger Masters, Fortune is a River, New York: Penguin 1999). Descrive minuziosamente macchine irrealizzabili per le tecnologie della sua epoca, compresa la sua macchina volante – tutto poi realizzato nel XX secolo e in quest’anno 2019, in occasione dell’anniversario della morte. Leonardo appartiene a quella linea ‘filosofica’ dei meccanici, disprezzati dai filosofi umanistici, perché lavorano più con le mani che con la mente e che mostrano più che descrivere a parole. Leonardo, che insiste in moti appunti sulla superiorità della pittura sulle arti verbali, perché è più veloce e precisa, sa di appartenere a quel genere di inventori e lo dice: i pensatori “vanno sconfiati e pomposi, vestiti e ornati non delle loro, ma delle altrui fatiche e le mie a me non concedano. E se me inventore disprezzeranno, quanto maggiormente loro, non inventori ma trombetti e recitatori delle altrui opere, potranno esser biasimati” (123). I taccuini sono i giochi d’intelligenza dove l’intelligenza si mostra immediatamente, come risoluzione di problemi virtuali, esercitazione alla prontezza all’invenzione intuita, mentre il linguaggio intellettuale è lento e dogmatico, facendosi scudo al meglio dell’infinita argomentazione logica, al peggio del principio d’autorità dei pensatori precedenti. Il genio invece è quello che non apprende dagli altri, ma “dalle cose naturali”, come fa Giotto, che abitando “sui monti soletari”, invece di imitare il maestro Cimabue, osserva la natura (202). Quando Immanuel Kant definisce il genio come quella predisposizione naturale a fare della natura la regola per l’arte, sembra che abbia letto Leonardo.
Altre intere famiglie di inventori hanno lasciato documenti ‘visivi’, nel senso di disegni, istruttivi e ludici insieme, in cui macchine complicate appaiono in una incredibile chiarezza, come plausibili, e non necessariamente realizzabili. Tra i molti esempi, la famiglia di Jacopo Strada, che collezionava incisioni di argani e pome idrauliche, o il Theatrum instrumentorum et machinarum di Jacques Besson. Una forma d’arte che supera le distinzioni tra belle arti e arti applicate, tra scienza e arte, che forse si potrebbe definire meglio con il greco techne: tecnica, gioco, creazione, teatro di pura esibizione. E’ questa forma d’arte che ritroviamo nelle arti di oggi, quando sono gioco tecnologico, come i videogames, la biomimetica, la digital art…
*Le citazioni di Leonardo sono tratte da: Leonardo da Vinci, Scritti artistici e tecnici, a cura di Barbara Agosti, in La macchina del Mondo, Milano: Mondadori, 2019).