Introduzione alla collana “Il gioco nella filosofia” del GamificationLab Magazine curata da Brunella Antomarini e sviluppata da Daniela Movileanu.
Il presente articolo di Brunella Antomarini, docente di filosofia presso l’università John Cabot di Roma, presenta, contestualizza e racconta la genesi della prima serie di articoli dedicati a “Il gioco nella filosofia” di Daniela Movileanu pubblicati nell’ultimo anno dal GamificationLab Magazine. Questa collana, che sarà presto raccolta in un libro, è dedicata ad illustrare come il gioco sia presente nella filosofia di vari pensatori e quale funzione esso abbia assunto nel corso della storia della filosofia.
Quando Francesco Lutrario mi ha chiesto di curare una serie di articoli che rintracciassero nella storia della filosofia riflessioni sul senso del gioco, mi è sembrata una bellissima idea ma anche difficile, per diverse ragioni: doveva essere una ricerca libera da certi stilemi accademici; sapevo che per lo meno nella tradizione, i filosofi non hanno dedicato molta attenzione al gioco; e inoltre alcune teorie interessanti sarebbero venute da pensatori non classificati come filosofi. Allora ho pensato che si potesse farne un work-in-progress che rilevasse come l’argomento si sia sviluppato in modo sempre più evidente fino ad arrivare al XXI secolo, che è il tempo della singularity, dell’espansione esponenziale di tecnologie che si prestano a una rinnovata idea del gioco come strumento cognitivo, riflessivo, o anche liberamente ideato come fine a se stesso.
Per lo stile aperto e divulgativo, la scelta di Daniela Movileanu mi è sembrata la più adatta perché, oltre ad avere una straordinaria intelligenza filosofica, è anche coinvolta in prima persona nella dinamica del gioco: è infatti campionessa nazionale di scacchi. Ho poi pensato che per rendere l’iniziativa più chiaramente rivolta a un’autentica curiosità verso l’argomento, senza accademismi e con libertà intellettuale, ci sarebbero state bene delle vignette a sdrammatizzare e sottolineare in fondo la scarsa ironia dei filosofi classici. E ho pensato a Marc, vignettista e illustratore di talento naturale e laureato in filosofia.
Liberare la ricerca dal rigore accademico – senza per questo essere arbitraria o superficiale – è stata una bella sfida: crea una continuità tra pensatori molto diversi tra di loro che pure si sono avventurati in un campo apparentemente secondario. Ma per le nuove generazioni di intellettuali, programmatori, artisti e scienziati sarà certamente rilevante considerare ‘gioco’ tutto ciò che riguarda un pensiero agile e utile a risolvere problemi, a interagire con l’intelligenza artificiale e rivolto più al futuro che al passato.
Se il gioco passa per lo più nella storia della filosofia in seconda battuta, o in relazione ad altro, o di sfuggita, è perché i filosofi fondano il lavoro del pensiero su leggi di natura e cause universali dei fenomeni. E se tutti conoscono la famosa fotografia di Albert Einstein che fa una linguaccia di fronte alla macchina fotografica, certo non possiamo che immaginarlo al massimo della serietà mentre lavora alle sue idee rivoluzionarie. Il gioco sembra concludersi con la fine dell’infanzia e se si protrae nella maturità ci fa immaginare esseri umani privi di impegno e preoccupazione per il bene comune. Nello Stato ideale di Platone la filosofia andava insegnata nelle scuole in età avanzata, quando si gioca meno e si pensa di più. Platone inaugura questo atteggiamento pensoso: il filosofo non si diverte; è questa del resto la lezione del maestro Socrate, che invita a concentrarsi sui concetti e insegna a disprezzare i pregiudizi nei quali gli ateniesi si riconoscono, nel più ovvio conformismo. Nietzsche non gli perdonerà questo errore, secondo lui fatale a tutta la civiltà occidentale, servito solo a razionalizzare e soffocare la volontà.
Eppure, il tema affiora qua e là nella tradizione; il fanciullo che si nasconde nell’adulto e verso cui l’adulto mantiene un conto in sospeso, pensa, mentre gioca. Dobbiamo aspettare la modernità, quando l’analisi psicologica dell’età evolutiva, il valore del divertimento inteso etimologicamente come deviazione dalla banalità dell’attuale, la vacanza, intesa come vuoto che permette alla mente di liberarsi dalle oppressioni sociali, la considerazione crescente della categoria di ‘giovane’ – con lo slancio de “l’immaginazione al potere” – diventano motivo di analisi. Quando poi la cultura digitale si costituisce come grande gioco indistinguibile dal lavoro – operativo e cognitivo, di informazione e di auto-sfida, di piacere senza sforzo fisico – allora è arrivato il tempo di far conoscere a un pubblico vasto quali filosofie ne hanno trattato.
La selezione dei filosofi non è ‘accademica’ ed è avvenuta seguendo un filo rosso che passa per correnti molto diverse e che consiste nel non escludere la possibilità di una cognizione altra da quella della coscienza, della razionalità, del pensiero astratto. È il pensiero che si pensa con le mani, col costruire un oggetto e col piacere di distruggerlo per costruirlo di nuovo. Un’attività che non si conclude mai per tutta la vita e che non è prerogativa dell’infanzia.
Al lettore la libertà di decidere se questa rilettura delle filosofie sia anche un rovesciamento di prospettiva: e cioè ci chiediamo se potremmo pensare e conoscere senza giocare; se non sia un gioco anche l’elaborazione di teorie della conoscenza, di scenari politici, di analisi logiche. Abbiamo perciò proceduto in queste due direzioni possibili: che cos’è il gioco per la conoscenza? E quali giochi della mente hanno proposto i filosofi per cominciare a conoscere, a comprendere e dare senso al mondo e a sé stessi? Abbiamo incluso, insieme ai grandi, come Platone e Aristotele, anche pensatori esclusi dalle storie della filosofia, come Erone di Alessandria, e più tardi Leonardo da Vinci, o Athanasius Kircher, legati alla tradizione dei costruttori e dei tecnici, o dei mécaniciens, o horlogers-mechanistes, come venivano chiamati con disprezzo dai filosofi puri. È anzi nella prima modernità che si rafforza l’antica distinzione tra pensatore e tecnico-scienziato. Il tecnico-giocatore, che non strumentalizza i suoi esperimenti né al pensiero puro né alla scienza, ne diventa la prima vittima. Con Nietzsche, e il suo disprezzo per Socrate, di cui non sopportava nemmeno la bruttezza fisica, si sovverte la tendenza: si pensa anche senza saperlo, anche quando si agisce senza intenzione consapevole, come dimostrava Freud, lettore di Nietzsche. L’apertura conseguente ad altre discipline, come l’antropologia e la sociologia, ci fa riconoscere il gioco come trans-culturale e importante per lo sviluppo cognitivo: filosofi come Adam Smith, Immanuel Kant, Friedrich Schiller e Charles Sanders Peirce, per quanto distanti geograficamente e per tradizioni di appartenenza, anticipano la riflessione sul ruolo dell’attività ludica nella cognizione. Il “percorso” si conclude con il gioco degli scacchi, così come è stato visto da alcuni grandi scrittori, e preso come simbolo della prospettiva contemporanea sull’argomento.
Consideriamo questa raccolta la prima di un work-in-progress, che conta di inserire pensatori del XX secolo – come, ad esempio, Marcel Jousse e Henri Bergson, insieme a Johan Huizinga e gli studiosi di cibernetica – per proseguire con la crescente ricerca sull’argomento nel XXI secolo, che è il secolo del video-gioco, del network globale, della robotica, dell’Artificial Life.
Pensare in fondo non è altro che fare e rifare grandi giochi di algoritmi, che se minacciano di manipolare la mente umana, ci ricordano però che le regole per realizzare un lavoro, per risolvere problemi e superare sofferenza e disagio, sono state sempre algoritmi e che da sempre, per conoscere, c’è stato bisogno di una zuffa col disordine che si sperimenta solo mentre si gioca.